Il tempo è fatto dalle persone, è edificato dai loro gesti; dal fare, e dall’agire. Le ore gocciolano via, lente, come grani d’un rosario; oppure, esplodono improvvise, devastanti come colpo di fucile. A noi spetta soltanto il compito, faticoso ed estenuante, di non lasciarle trascorrere sterili; ma, piuttosto, di riempirle, di plasmarle in un significato che possa nobilitarci, o che ci consenta di non smarrirci nei nostri dolori senza nome. Le stagioni si travasano, in un gioco perenne a rincorrersi. E noi assistiamo indocili al loro squadernarsi. È fatale, inevitabile. Come-Dio-vuole. Come-Dio-dispone.
Siamo, adesso, già giunti a maggio, l’ennesimo maggio delle nostre vite. E son passati ben quarant’anni da quel giorno particolare, d’un altro maggio, un po’ più remoto, in cui la tua esistenza, Don Enzo, ha virato, decisa e coraggiosa, verso altri orizzonti, verso scelte audaci e radicali.
Ma questo non è un discorso sul tempo che trascorre, che fluisce via. È un discorso sull’importanza che il tempo non trascorra via inutile, non fluisca via senza aver lasciato un seme che, gemmando, possa mostrare a chi verrà dopo, a chi seguirà in questo pellegrinaggio chiamato vita, che qualcuno prima di loro è passato; e che non è passato incurante, né accidioso.
E tu, Don Enzo, certamente di semi ne hai sparsi parecchi: non ti sei risparmiato mai, con quell’ostinazione, quella caparbietà – e anche quel sorriso fiducioso – che hanno i contadini nel curare un campo, nello scrutare il cielo e predire i capovolgimenti del tempo atmosferico. Con quella pazienza con la quale s’attendono i cicli della luna, il rincorrersi delle stagioni. Noi ragazzi avremmo aneddoti divertenti da raccontare; testimonianze importanti, preziose. Avremmo certo anche tante bischerate da proporre, tanti frammenti più dimessi ma non per questo meno importanti. Da apocalittiche guerre estive di guanciali, a olimpionici volteggi e piroette sul ghiaccio; da imbarazzanti infestazioni d’improbabili fantasmi, a spensierate gite in ogni angolo d’Italia e d’Europa; da avventurose estati tra insolazioni e rumorosi inseguimenti sul risciò, seminando il panico tra i turisti che mangiavan gelati, a sfiancanti e terrorizzanti escursioni intorno a laghi alpini, dalle rive scoscese a rovinare nell’acqua, e tutti noi (alcuni piangenti) dietro a te, che spavaldo dicesti: «Ovvia andiamo, tanto vedete che bel sentiero che c’è!».
Ne abbiam passato così tanto di tempo assieme: siamo cresciuti con te, ci siamo confrontati con te; proprio stamattina, addirittura, qualcheduno di noi s’è risvegliato genitore: un traguardo che, a ben pensarci, fa girare la testa, fa aumentare le palpitazioni. Sicché è con te, attore e non già comparsa, che siamo diventati adulti.
Ma questo discorso non vuol essere nemmeno un elenco, un campionario del passato, una riesumazione di ricordi, di reliquie private e intime; e che tali, per loro stessa natura, devono restare. Vuole essere una semplice – come piacciono a te – formulazione di ringraziamento: grazie, Don Enzo, di tutto cuore! Perché ciò che fa trascorrere il nostro tempo, ciò che nobilita il nostro passaggio – breve o lungo che sia – in questo mondo, è la testimonianza, la prova dell’esempio. E con la testimonianza, tu, Don Enzo, ci hai sempre riempito gli occhi, e la mente; e la coscienza.
Firmato: (quelli che una volta furon) i “giovani”
Giulio, Irene M., Alice, Beatrice, Chiara, Irene G.